La banalità del male

Le recensioni di GdA

La banalità del male, Hannah Arendt , Feltrinelli 314 pagine 7,12 euro

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Il titolo già dice tutto sui contenuti del libro. Un libro (ora anche il bel film di Margarethe von Trotta) intelligentissimo, controcorrente, profondo, che scava nell’animo umano, nella scienza politica e nel diritto. E ne trae insegnamenti utili ancora oggi, a quasi 60 anni dalla pubblicazione. Adolf Eichmann era un ufficiale delle SS incaricato di organizzare il trasporto ferroviario di milioni di ebrei verso i campi di concentramento. Uno che stava dietro a una scrivania e che ogni giorno mandava al massacro migliaia di persone, un burocrate della Shoah. Ed è in questo modo che si definì più volte durante il processo che lo vide alla sbarra, a Gerusalemme, dopo la sua cattura nel 1960 in Argentina ad opera del Mossad, il servizio segreto di Israele. Hannah Arendt, ebrea tedesca, teorica della politica, allieva e, da giovane, amante del grande filosofo tedesco Martin Heiddegger, dichiarato antisemita, rifugiata negli Stati Uniti, seguì il processo come inviata del New Yorker. I suoi articoli e il successivo libro, scandalizzarono l’opinione pubblica mondiale, soprattutto ebraica. Perché descrisse Eichmann non come il prototipo del male assoluto bensì un uomo comune, normale, mediocre. Ma era proprio questa sua normalità che rendeva il suo comportamento ancora più terribile. Non era un mostro, come lui nella Germania nazista ce n’erano moltissimi, che avevano giurato obbedienza al Fuhrer e alle sue leggi, e per questo si sentivano in dovere di eseguire ordini che sono considerati normalmente mostruosi. Non pensavano con la loro testa, obbedivano e basta. La scoperta di questa dimensione del male, a un tempo banale e terribile, rende grande il pensiero della Arendt. Perché se è facile catalogare chi esercita egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sadismo, più difficile è classificare chi invece, in mezzo a faldoni, organizza vagoni della morte. E’ questo nuovo tipo di male che individua e spaventa Hannah Arendt. Appunto, la sua banalità. Queste considerazioni ovviamente non giustificano Eichmann e i suoi sodali. Che rimangono degli aguzzini, degli assassini.
Arendt, assieme a problemi morali, sviscera anche quelli politici e giuridici sorti nel processo Eichmann. Innanzitutto la caparbietà di Ben Gurion, allora primo ministro di Israele, a volere questo processo e a volerlo gestito in quel modo. Fu lui a ordinare la cattura di Eichmann, lui a volerlo accusare di genocidio contro gli ebrei, lui a volere quella rappresentazione della tragedia del suo popolo, lui a denunciare che la Germania nazista non era stata la sola responsabile della morte di milioni di ebrei e che le altre nazioni si dovessero vergognare per averglielo permesso, lui che voleva ricordare come gli ebrei da sempre avessero dovuto fronteggiare un mondo ostile. Secondo Hannah Arendt una linea fallimentare che non portò a quasi nessuno dei risultati proposti.
Molto precise e ficcanti sono anche le critiche che la filosofa tedesca fa agli aspetti giuridici del processo. Innanzitutto sulla cattura all’estero, e senza accordo con il governo argentino, di Eichmann in violazione di ogni legge e trattato internazionale. Anche sulla sede del tribunale, il nuovo stato di Israele, e i suoi giudici che non avevano nessuna giurisdizione sull’imputato, cittadino tedesco. Eichmann poi non aveva potuto esibire testimoni a discarico. Da classica difesa d’ufficio infine quella dell’avvocato di Eichmann: fece poche e scontate domande, rare contestazioni, pochissime proteste, insomma quasi non combattè nessuna battaglia, uomo solo contro tutti. Ma soprattutto il processo evidenziò l’incomprensibile comportamento degli ebrei e in particolare dei loro capi durante gli anni delle deportazioni. Tranne che in pochissimi casi, la rivolta del ghetto di Varsavia su tutti, prevalse la rassegnazione, la convinzione che quello che stavano subendo fosse inevitabile, che fosse impossibile opporvisi. Ancora più sconcertante il comportamento dei responsabili delle comunità. Essi da prima collaborarono con le autorità naziste per far espatriare (a caro prezzo) migliaia di persone, poi addirittura contribuirono a stilare le liste dei deportati. E Eichmann prese più volte parte a queste trattative. Succede quasi sempre così nei processi politici: il potere vuole esibire la propria forza, dimostrare che l’imputato ha commesso i peggiori crimini, spettacolarizza le udienze, ma poi spesso la pietra sollevata gli cade sui piedi. Perché escono notizie, fatti, comportamenti imbarazzanti per l’accusa, che contraddicono i suoi principi politici e morali, i testimoni parlano, la carte svelano. Soprattutto se la difesa va all’attacco, rompe gli schemi, dimostra che chi accusa si comporta come l’accusato, che anche quella nazione ha commesso genocidi e violenze inaudite. In questo tipo di processo, dove la sentenza è già stata emessa prima che inizi, la difesa non può comportarsi come in un normale procedimento. Lo ha dimostrato più volte il teorico del “processo di rottura”, l’avvocato Jacques Vergès, difensore di militanti algerini negli anni Cinquanta, del famoso guerrigliero Carlos, del boia nazista Klaus Barbie. Se nei “processi di connivenza” l’imputato accetta le regole del gioco, legittima i presupposti sociali e ideologici di chi l’accusa, nel “processo di rottura” invece non riconosce la sua giurisdizione, nega l’autorità del giudice. Non verrà mai assolto, ma farà emergere le contraddizioni di quella società, dimostrerà la sua incoerenza, la discrasia che c’è tra i suoi principi e la sua pratica. Al processo di Norimberga contro i peggiori criminali nazisti invece nessun avvocato difensore accusò gli Stati Uniti di aver sganciato la bomba atomica provocando 300mila morti né i sovietici di aver sterminato 15mila ufficiali polacchi a Katyn. Ma sono i vincitori che scrivono la storia, non i giudici. A questo proposito sono sempre valide le parole di Robespierre che alla Convenzione disse che Luigi XVI non era un imputato e loro non erano dei giudici, la vittoria della Repubblica sulla monarchia era un atto politico e contro Luigi si doveva prendere una misura di salute pubblica tagliandoli la testa. Con Eichmann Israele ebbe un comportamento contraddittorio: prima, con la sua cattura, si comportò da fuorilegge, poi, con il processo, volle rientrare nella legalità con i problemi che ne nacquero, altro paradosso, a opera della Arendt. Molto più “coerentemente” (ma ovviamente da condannare sul piano legale) e Israele si comportò invece con i palestinesi di Settembre nero che uccisero alcuni atleti durante le Olimpiadi di Monaco: li andò a scovare uno per uno in giro per il mondo e segretamente li eliminò. Lo racconta bene “Munich”, il bel film di Steven Spielberg.
Il libro della Arendt permette anche di allargare il discorso sul tema del rapporto tra politica e diritto. A detta di chi scrive risolvere giuridicamente i problemi politici è concettualmente un grave errore. Lo fece anche Stalin con i processi a suoi oppositori seguiti all’omicidio di Kirov, importante dirigente del partito a Leningrado. Gli imputati erano accusati di tradimento, intesa col nemico, spionaggio. Accuse che potevano anche essere verosimili, ma le loro vere “colpe” erano altre: il dissenso verso la politica maggioritaria del partito. Anche qui Kamenev e Zinov’ev erano il Male assoluto. Ma allora andava così, e forse le enormi difficoltà della costruzione del socialismo lo giustificavano. Così, invece di cercare di capire e risolvere le contraddizioni, semplicemente le si negavano. Una politica non risolutiva come si è visto, però solo dopo cinquant’anni. Ma in quei processi si assisteva a qualcosa di più: le confessioni da parte degli accusati di crimini orrendi, probabilmente mai commessi. Una spiegazione difficile da capire se non ci si cala nella mentalità del rivoluzionario di vecchia data che, interiorizzata così profondamente l’ideologia e i valori del partito, accetta il sacrificio della propria vita per il superiore interesse dell’organizzazione. La confessione era una necessità per il partito perché esso non concepiva che potessero esistere al proprio interno visioni diverse del socialismo. Era considerata un’eresia. Come nei processi dell’Inquisizione. Gli imputati venivano torturati fino a che non confessavano blasfemia, paganesimo, eresia. In quei processi addirittura il giudice era anche accusatore, non era ammessa la presenza di un difensore e la tortura era un metodo di indagine. L’imputato poi doveva non solo confessare ma abiurare, rinnegare le proprie convinzioni, pentirsi. Anche in questi processi l’accusa non concepiva che ci potessero essere idee contrarie a quelle della Chiesa, cattolica o protestante che fosse. Quindi insisteva con le torture finché l’apostata non rinnegava le sue idee e abbracciava quelle del suo aguzzino. Per l’Inquisizione Giordano Bruno non era uno che aveva idee religiose differenti: era il Male assoluto. Siamo alle solite. E’ il pensiero unico che non ammette né concepisce altro da sé.
Facendo un parallelismo forse un po’ forzato, ai giorni nostri troviamo traccia del concetto di pensiero unico persino nell’accordo sulla rappresentanza firmato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil dove si dice che è necessario prevenire e sanzionare eventuali “comportamenti attivi od omissivi” che impediscano l’applicazione dei contratti sottoscritti dalle parti. Siamo alle solite: chi non è d’accordo sulle clausole di un contratto non solo non può criticarlo né contrastarlo ma deve sostenerlo. Omettere, vuol dire “non fare”, quindi è obbligatorio sostenere. Hannah Arendt ne sarebbe inorridita.

 

2 comments

  • marina

    Non ho letto il libro ma trovo interessante l’approccio ai processi di stato dall’esito scontato e al pensiero unico anche se non capisco cosa c’entra l’accordo confindustria sindacati.
    Mi piacerebbe leggere altri commenti sul pensiero unico. Potete suggerirmi dei testi?

  • GdA

    Ecco alcuni testi interessanti che trattano del pensiero unico
    - Diego Fusaro – Lorenzo Vitelli – Sebastiano Caputo, Pensiero in rivolta. Dissidenza e spirito di scissione, Barney Edizioni, Siena 2014
    - Emiliano Brancaccio La crisi del pensiero unico, Franco Angeli Editore
    - Rocco Ronchi Critica del pensiero unico Mondadori (è un ebook)
    buona lettura

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